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Hugues Panassié. La seduzione del Vino. La seduzione della Musica.

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Di Luca Cerchiari

Per uno che da una vita, come chi scrive, si occupa (anche) di musica jazz, la figura di Hugues Panassié (1912-1974) rappresenta un punto di riferimento. E’ stato infatti questo curioso protagonista della società francese, vissuto sempre a metà tra Parigi e il Sudovest di quel Paese, a scrivere il primo importante libro sul jazz, edito nel 1934 a Parigi da Robert Correa col titolo di Le Jazz Hot. L’appellativo hot indicava non solo il calore dell’espressività musicale di un Louis Armstrong, del quale Panassié è stato a lungo amico e frequentatore, ma anche la dimensione più autentica dell’espressività di questo genere, contrapposta a quella della musica più commerciale. Dobbiamo a Panassié una vera e propria guerra, combattuta per affermare le qualità artistiche di questa musica, inclusa l’improvvisazione, e per contribuire a distinguerla da quella di musicisti bianchi pur importanti (come George Gershwin) che l’America e l’Europa musicale ebbero erroneamente ad indicare, a lungo, come i padri del jazz. E gli dobbiamo molto altro: diciassette libri, varie riviste, molti dischi prodotti in Francia e negli Stati Uniti, innumerevoli programmi radiofonici, numerose conferenze, e una fittissima corrispondenza con mezzo mondo.

Panassié, finita la guerra, entrò in conflitto con i nuovi stili, con la modernità. Finì a ribellarsi contro Parigi e i suoi colleghi, ritirandosi a Montauban, dove fondò una rivista contrapposta a Jazz Hot, che aveva creato lui stesso anni prima con Charles Delaunay, ma che ora virava verso “i moderni”. Da Montauban diresse le sue contro-operazioni a favore del jazz (classico e tradizionale) organizzando Festival, tournée, bollettini d’informazione e quant’altro, sempre in compagnia della seconda moglie, la poetessa e preziosa collaboratrice Madeleine Gauthier. Hugues Panassié, sul quale è da poco stato pubblicato un voluminoso saggio di Pierre Fargeton (Mi figue-Mi raisin, Outre Mesure, Parigi 2020), ricco di documenti inediti, è scomparso nel 1974 non senza aver avuto il tempo di lasciare un libro-intervista curato da Pierre Casalta, Monsieur Jazz (Stock, Parigi 1975).

Più che parlarvi del suo rapporto con la musica, vorrei segnalarvi, di Panassié, da questo libro, il rapporto col cibo, ma soprattutto con il vino. Hugues era un noto buongustaio. Al panettiere di Montauban, cittadina di cinquantamila abitanti non lontana da Tolosa, dedica descrizioni ammirate su come sia riuscito a preservare e preparare ogni giorno il miglior pane fresco della regione. Ma le pagine che dedica al vino sono ammirevoli e sorprendenti almeno quanto le descrizioni di grandi musicisti come Lionel Hampton, Willie the Lion Smith o Benny Carter (“il miglior gastronomo della storia del jazz”). Panassié descrive a Casalta, con dovizia di particolari, la sua ampia cantina e i suoi gusti in materia enologica. Suggerisce, in un ristorante, l’attrazione per il vino in caraffa, piuttosto che in bottiglia (“temo le bottiglie super-controllate, super-chiuse a tappo, troppo etichettate”…). Afferma che non sono antipasti o stuzzichini ad aprire il palato al buon vino, ma il contrario è il buon vino che va gustato da solo, e che apre al palato. Elogia la sua scelta di vini quali l’anjou, il cahors, il gaillac (bianco e rosso), e ancora il marcillac, il vino di Borgogna, ma anche il celebre chateauneuf-du-pape, e infine i vini spagnoli, diversi tipi di Xeres.

Afferma andando controcorrente che non è l’annata a far il vino buono, che quello più recente può essere altrettanto buono del vino più stagionato. E che più che l’abbinamento coi formaggi, ai vini giova quello con le noci e le nocciole. Mettendo in guardia il buon degustatore dalla seduzione degli antipastini e degli stuzzichini, fatti apposta nei bar per spingere i clienti a consumare alcolici. In qualche modo Panassié afferma una priorità e purezza del solo vino. Come fece con la musica, sottolineandone ed esaltandone gli aspetti artistici e l’autenticità. Molti si sono chiesti come abbia fatto a coinvolgere così tanti grandi nomi del jazz americano: la risposta sta nel vino francese che Panassié offriva loro, seducendoli, in attesa delle loro seduzioni sonore.

CROCEVIA OBBLIGATO

 

Di Fabrizio Brasili

La luna di miele fra Draghi ed i suoi ministri o meglio gli Italiani, dopo un paio di settimane, pare volgere al termine.

Non e' la persona in se stesso, con tutte le carte in regola, certo, ma quello con cui si deve e dovrà scontrare.

Pare un torero buttato a forza nell' arena, poiché il toro, continua ad incornare gli sprovveduti principianti, e sta attendendo la sua ora.

La Pandemia non ne vuole sapere di allentare la presa ed anche l' esperienza di Draghi può fare ben poco, se non accelerare un po' le misure per contrastarla e l' arrivo dei vaccini.

Sarà quasi impossibile affrontare e risolvere definitivamente, le riforme attese da decenni anche dall' Europa.

Con questo quadro i mercati ed in particolare in nostro indice principale, non potranno che pervenire a livelli più realistici, più vicini ai minimi toccati un anno fa, che ai massimi toccati nei primi due mesi di quest'anno.

Nonostante il quadro drammatico i mercati continuano a tenere, pur mantenendo una evidente fragilità ed esposte a scorribande fra i "ragazzini di Game Stop e i potenti Hedge Funds".

O anche timidi, ma sempre più insistenti, tentativi di pressione su titoli ed indici, laddove ci siano prezzi" tirati"  o anche indici settoriali ..in logica rotazione.

Un esempio e ' il nostro Ftsemib, che continua a  "flirtare", fra i 22500/600 e 23200/300, in pura e corretta analisi tecnica, ma tecnicamente pronto a scendere ancora a breve termine, sui 22200/300, andando lentamente pero' a testare minimi e massimi sempre piu' bassi.

Molta volatilità poi anche sui titoli e non solo sulle small e mid cap, ma su quelli che incidono appunto con le loro variazioni e volumi sull' indice generale.

Un altro esempio fresco di venerdì 26 .

Aperture molto complicate per Tenaris e Saipem, entrambi sospesi dalle contrattazioni, il primo al rialzo ed il secondo al ribasso.

Poi per tutta la seduta hanno scambiato con voi!umi altissimi, e con guadagni anche a doppia cifra, sfiorando i 9 euro, il primo.

E con perdite, fino all' 8% il secondo.

Per Tenaris solo risultati meno negativi  del previsto, mentre per Saipem, solo insana speculazione dell' ultima ora.Ma per entrambi esagerate reazioni in ogni caso.

Si può pensare di tutto, anche che il mercato sia diventato troppo  volatile ed isterico, o che stia iniziando ad essere dominato dagli emuli dei ragazzini di cui sopra.

Negli USA, il NASDAQ, ha lasciato sul terreno nelle ultime sedute, quasi il 10%, per iniziare a passare, momentaneamente, il testimone agli altri indici, Dow, SP500 e Russell.

Grosse perdite quindi sui tecnologici, tranne FB, ma qui appunto su valutazioni troppo tirate( Tesla)

 

 

GRUPPO CREDEM, CRESCE IL FACTORING NEL 2020

  • gruppo credem
  • banca
  • factoring

 

NEL 2021 FOCUS SU INNOVAZIONE DIGITALE E SINERGIE INFRAGRUPPO

Risultati in controtendenza rispetto all’andamento del mercato factoring con quote di mercato in crescita su impieghi, outstanding e turnover.

L’andamento del settore factoring per il Gruppo Credem si conferma in crescita su tutti i principali indicatori di sintesi ma soprattutto in forte controtendenza rispetto all’andamento del sistema nel suo complesso. I risultati approvati al 31 dicembre 2020 di Credemfactor, società del Gruppo Credem specializzata nel factoring, guidata dal Direttore Generale Gabriele Decò, registrano un risultato lordo di gestione di 9,8 milioni di euro, +7% rispetto al 2019 che confermano la solidità e la qualità del core business societario. In crescita anche gli impieghi pari a 1,1 miliardi euro, +2,1% rispetto a 1,084 miliardi di euro dell’anno precedente ed il numero dei clienti in progresso del 9,5% rispetto all’anno precedente.

Nel corso del 2020 è stato affrontato un importante piano di innovazione e digitalizzazione per accrescere il valore e la consulenza dei nostri specialisti che rimangono al centro, insieme al cliente, della nostra strategia. In dettaglio sono stati realizzati investimenti per creare una piattaforma innovativa, denominata Fast Factoring digitale, in grado di gestire le diverse esigenze del cliente, dall’on-boarding alla contrattualizzazione fino all'intera transazionalità tra cedente e debitore. Inoltre, è stato attivato un progetto per automatizzare l’intero processo degli incassi (RPA - Robotic Process Automation). Questi miglioramenti consentiranno di rafforzare ulteriormente nel 2021 le sinergie con le reti commerciali di Credem, di Credemtel e del Gruppo grazie a soluzioni di supply chain finance e management a sostegno delle imprese clienti e prospect nell’ambito di un ampio programma di open banking di Gruppo.

“Il mio riconoscimento per i risultati raggiunti va senz’altro rivolto alle nostre persone che con impegno e passione hanno saputo interpretare un contesto davvero molto sfidante”, ha dichiarato il Direttore Generale di Credemfactor Gabriele Decò. “Nel 2020 la società è riuscita a crescere nonostante un mercato di riferimento in calo, preservando la salute dei dipendenti e della clientela garantendo il servizio e il sostegno alle imprese con canali di assistenza a distanza. Ritengo che tra i maggiori elementi di successo vi sia senz’altro la stretta sinergia tra la nostra rete di specialisti e le reti commerciali small business e Corporate di Credembanca”.

Credemfactor opera su tutto il territorio nazionale grazie ad una rete specializzata di professionisti e attraverso la rete la rete distributiva del Gruppo Credem costituita da 611 tra filiali, centri imprese, centri small business e negozi finanziari, con 6237 dipendenti, 839 consulenti finanziari e 447 tra agenti e collaboratori di Avvera.

A cura di Media relations CREDEM

SE NON E' DELLO SPIRITO NON E' INDIANO

 

Di Roberto Camerini

Lo sconvolgimento della natura a opera dell’uomo sta assumendo proporzioni sempre più allarmanti e costituisce ormai il problema principale per molti paesi tecnologicamente avanzati: dalla soluzione che si saprà dare al conflitto fra sviluppo industriale e tutela dell’ambiente dipenderà il futuro stesso di tutta l’umanità.

La concezione illuministica del progresso illimitato altre ideologie che si prefiggevano esclusivamente un aumento indefinito del benessere materiale hanno portato a considerare l’ambiente naturale come fonte inesauribile di ricchezza, prodigo dispensatore di materie prima, oggetto di sfruttamento indiscriminato.

La civiltà occidentale consumistica privilegia, in particolare, una dimensione “economico-utilitaristica” per cui il metro dell’avere è l’unico valido nella misurazione di valori considerati rilevanti dalla società.

Una risposta dalla civiltà pellerossa.

Il rispetto per la natura, al contrario, rappresenta una costante di parecchie civiltà “primitive”.

Esso è dovuto, non solo al fatto che si tende a interpretare come segno divino tutto quanto non è spiegabile razionalmente (e per questo degno di rispetto e fenomeno verso cui nutrire anche timore); il rapporto uomo-natura è diverso poichè ha matrici “filosofiche” diverse.

Recuperare questa mentalità può essere utile anche per l’uomo di oggi sia un’ottica antropologico-culturale sia, soprattutto, in senso squisitamente utilitaristico, come contributo assai importante alla soluzione di problemi ambientali.

Nella prefazione al suo suggestivo romanzo che ripercorre la storia di due famiglie Dakota dal 1794 al 1835, Ruth Beebe Hill elenca una serie di parole e di concetti che gli Indiani d’America ignoravano.

Fra gli altri compare il termine “erbaccia”.

Prescindendo dalla banalità di ciò che la parola rappresenta , il fatto risulta emblematico di una mentalità completamente diversa dalla nostra.

L’idea di conservare manicheisticamente gli esseri viventi “utili” e “nocivi” (per l’uomo e solo per l’uomo) era del tutto estraneo al Pellerossa.

La premessa non è pleonastica se si vuole comprendere come fosse intenso, viscerale, totale l’amore che l’Indiano nutriva per la natura.

Simile atteggiamento era dettato non tanto dalla necessità di una conoscenza assai approfondita dell’ambiente (conoscenza necessaria in particolare a tribù di cacciatori) quanto dal considerare la natura come un mezzo per perseguire la propria crescita spirituale.

Se i riti propiziatori o di ringraziamento possono considerarsi ricorrenti nelle società primitive , è invece tipica dei Pellerossa una visione del tutto personalistica dell’ambiente naturale.

La “filosofia” tipica per cui gli antenati affermavano che “se non è dello spirito non è indiano”, che intendeva il tutto come “qualcosa in movimento, vitalità spirituale”, attribuiva anche alla natura una potenzialità diversa, una forza vitale, appunto, della quale l’uomo stesso fa parte, essendone coinvolto nella sua interezza.

In altri termini, l’uomo non può sottomettere o padroneggiare la natura in quanto, essendo egli stesso natura, non può fare altro che realizzarsi attraverso il rispetto di leggi che, comprese o ignorate, sono espressione dello spirito universale e alle quali per sua natura deve sottostare.

Tutto questo non per passiva accettazione di una volontà superiore , bensì, al contrario, per autonoma, fattiva e attiva “costruzione” della propria identità.

Risulta qui evidente l’estensione del concetto di interazione uomo-ambiente in direzione di una visione maggiormente integrante, simbiotica, caratterizzata dall’attribuzione di un significato spirituale a tutte le cose, destinata a sfociare nell’animismo.

Le implicazioni pratiche sono facilmente deducibili: il rispetto di sé e dell’ambiente naturale acquista validità in funzione di un’intima convinzione piuttosto che conseguenza di imposizione esterna.

L’autonomia subentra all’eteronomia.

Il rispetto di sé e della natura

Ulteriore conferma di una simile concezione può essere ricercata nel tipo di educazione impartita ai fanciulli presso le varie tribù. ;Le informazioni trasmesse erano logicamente indirizzate alla perpetuazione di una società di cacciatori e di guerrieri.

Si poneva, tuttavia, la massima cura nel tentativo di convincere i giovani ad assumere comportamenti in armonia con valori consolidati da secoli di esperienze.

L’attenta osservazione di comportamenti di animali, i giochi di imitazione e di competizione, la ricerca di visioni per mezzo del digiuno, il racconto di gesta eroiche, l’apprendimento delle più elementari regole igieniche, l’imposizione del nomen costituivano per il bimbo indiano altrettante occasioni formative e socializzanti.

Si riusciva, in tal modo, da un lato a conciliare le esigenze del singolo con quelle del gruppo e dall’altro a esaltare sino alla sublimazione dei valori etico-religiosi che stavano alla base della convivenza sociale.

In simile contesto il rispetto di sé e della natura finiva per confondersi in una sorta di individualismo mistico, il cui unico scopo si identificava con la crescita spirituale del singolo.

Lo stoicismo con il quale il fanciullo indiano era avvezzato a sopportare senza un lamento qualsiasi dolore fisico si univa alla capacità, anch’essa acquisita, di operare con sicurezza nell’ambiente naturale nel suo pieno rispetto.

Il Sioux Ohiyesa scrive che l’indiano doveva essere un abile cacciatore perchè "un uomo non poteva essere un buon marito se non portava a casa selvaggina in abbondanza”; d’altro canto, come conferma Capo Orso Resistente, non era suo costume uccidere per divertimento ma solo per procurare cibo e vestiario alla sua famiglia: “quando moltitudini di bufali correvano per le praterie, l’indiano non ne uccideva più di quanti gli bastavano per nutrirsi, utilizzandone anche il pelo e le ossa”.

La visione d’insieme prospettata da tali convinzioni si caratterizza per alcune peculiarità: la mancanza del senso del superfluo, l’utilità della conservazione, la totale estraneità del paradigma dell’interesse economico come valore individuale e sociale.

Se letta in tale ottica , la “filosofia ecologica” pellerossa può portare benefici anche a noi, abituati a ogni dissacrazione, esponenti di una civiltà che la Storia ha dichiarato momentaneamente vincente e solo per questo a volte convinti di una presunta superiorità culturale.

Sapremo allora apprezzare parole piene di saggezza come quelle del Capo Sioux Orso In Piedi: “La vita dei miei antenati era intessuta di ideali e di costumanze che la civilizzazione dei nostri giorni non ha migliorato in niente; nella nostra cultura v’erano elementi positivi; era una vita capace di influire in senso benefico su qualunque altra collettività”.

 

 

GIACOMO VACIAGO. CIAO GRANDISSIMO PROFESSORE!

VACIAGOOggi ho saputo della morte di Giacomo Vaciago. La morte l'ha preso  il 23 marzo 2017. Tutti i giornali lo ricordano come ex Sindaco di Piacenza e come consulente di bla, bla, bla.... Avevo avuto il grande piacere di conoscerlo, di parlargli, di ascoltarlo  e di riceverlo, come relatore, ai nostri Convegni ASSOFINANCE. Io, voglio ricordarlo come uomo di rara intelligenza e competenza. Credo sia stato il primo intellettuale italiano a comprendere il rischio nazionale implicito nell'adozione del "fiscal compact". Era un cervello forte e libero.

Giannina Puddu - Presidente ASSOFINANCE

Da L’ESPRESSO del 1 marzo 2016: C'è poco da rallegrarsi, quest'anno sarà nuova recessioneI dati dell'Istat dicono che l'anno scorso il Pil è cresciuto dello 0,8 per cento, il deficit è sceso al 2,6 per cento e i posti di lavoro sono aumentati. Renzi gongola, ma secondo gli esperti il futuro è nero. Perché l'economia mondiale arranca e la Bce ha le armi spuntate. "L'unica soluzione è sospendere il fiscal compact" di Stefano Vergine

«Tutti i governi dicono che bisogna fare qualcosa, il problema è che nessuno lo fa. Il nostro è un mondo interdipendente, come ai tempi degli imperi. Solo che gli imperi governavano, i governi attuali sono senza imperatori». Giacomo Vaciago, docente di Economia monetaria all'Università Cattolica di Milano, di fronte agli ultimi dati economici invita a non rallegrarsi. E a guardare oltre confine, perché solo da lì può arrivare una soluzione.
 L'Istat ha certificato che, dopo nove mesi, il nostro Paese è tornato in deflazione: a febbraio, rispetto a un anno fa, i prezzi sono scesi in media dello 0,3 per cento. Così ha fatto l'Unione europea nel suo complesso, dove l'inflazione è stata pari a -0,2 per cento su base annua.
 Professore, che cosa significano questi numeri?
«Significa che i soldi tenuti sotto il materasso in Italia rendono lo 0,3 per cento. Quando i prezzi scendono, la banconota vale di più. La conseguenza è che la gente non compra, perché sa che il prossimo mese tutto varrà un po' meno, quindi vale la pena di aspettare, e questo ovviamente fa peggiorare l'economia».
 Il governo Renzi aveva stimato l'inflazione all'1 per cento quest'anno, mentre dai dati Istat la stima è di -0,6 per cento. Questo creerà dei problemi sulla riduzione del debito pubblico.
«Certamente. In generale, infatti, grazie all'inflazione il valore reale dei debiti si riduce, mentre se c'è deflazione l'onere aumenta. Noi, come tanti altri Paesi, ci troviamo in questa seconda situazione, quindi inevitabilmente c'è un problema da risolvere, perché il rapporto fra debito e Pil aumenterà».
 La previsione del governo è ridurre il rapporto debito/pil dal 132,6 per cento del 2015 al 131,4 per cento entro fine anno. Resta un obiettivo perseguibile?
«Le soluzione sono due: o si riduce il debito, oppure si agisce sulla crescita, perché aumentando il Pil si riduce il rapporto fra esso e il debito pubblico. Questo è quello che dovremmo fare: preoccuparci della crescita, non del debito, altrimenti restiamo nel circolo vizioso dell'austerity. Se nella situazione attuale cerchiamo di tagliare ulteriormente debito, cosa che si può fare solo riducendo ancora la spesa pubblica, vuol dire che ci piace farci del male. È Bruxelles che lo vuole, e io non capisco perché, arrivati a questo punto, non facciamo anche noi un referendum per uscire dall'Ue come farà la Gran Bretagna».
 Ci sono alternative?
«L'alternativa è sospendere il fiscal compact (il contenimento del debito pubblico di ogni Paese dell'Ue, ndr). Questa politica economica va ripresa solo quando il pil europeo sarà cresciuto per due anni a un tasso almeno del 2 per cento annuo».
 L'Italia ufficialmente sta provando a sostenere la linea della crescita.
«Sì, ma con scarsi risultati, anche perché è da sola in questa battaglia. Lo scorso weekend, al G20 di Shanghai, il ministro Padoan ha presentato un documento di 9 pagine per sostenere la necessità di puntare sulla crescita, ma non c'è stato un governo degli altri 18 Paesi dell'Ue che abbia detto siamo perfettamente d'accordo con gli italiani. Finché ognuno va per la sua strada da questa situazione non se ne esce».
 I dati appena pubblicati dall'Istat dicono che nel 2015 il Pil è cresciuto dello 0,8 per cento in un anno, lei però sostiene che stiamo entrando in una nuova recessione. Perché?
«Già alla fine dell'anno scorso il nostro Pil era in calo, e questo è dipeso principalmente dal rallentamento dell'economia globale. Lo scorso 11 agosto le Borse cinesi sono crollate per la prima volta, poi i ribassi sono continuati. I cinesi hanno investito tanto nelle economie occidentali e noi in Cina. Nel mondo interdipendente, quando un Paese va bene tutti festeggiano, ma quando uno va male sono guai per tutti, e quando ad andare male è la Cina il problema è ancora più grande. Già alla fine dell'anno scorso le nostre esportazioni hanno registrato un forte calo. E infatti le Borse globali hanno iniziato ad andare giù. Ora non ci resta che aspettare i dati sul Pil di inizio 2016».
 La Banca centrale europea si riunisce il 10 marzo: ha le armi per contrastare una nuova recessione?
«Mario Draghi lo ha detto mille volte. La politica monetaria espansiva, cioè il cosiddetto Quantitative Easing, ti dà abbastanza tempo per porre rimedio a problemi reali. Compri tempo, fermi gli orologi. Poi però tocca ai governi agire: dovrebbero puntare sulla crescita, sulla riduzione delle tasse e l'aumento degli investimenti pubblici, come ha detto Draghi, ma Bruxelles lascia questa incombenza ai singoli Stati che litigano tra di loro perché ognuno pensa al suo interesse particolare. Credo che alla prossima riunione la Bce aumenterà ancora il grado di liquidità e ridurrà di nuovo i tassi nominali di deposito. Ormai però anche Draghi può fare poco o niente».
 Qualche segnale positivo però c'è. A gennaio, secondo l'Istat, l'occupazione è aumentata dell'1,3 per cento rispetto all'anno prima.
«Sul mercato lavoro anche Bruxelles riconosce che l'Italia ha fatto molto, e infatti i risultati si vedono nei dati. Il problema è che se entriamo in recessione rischiamo di vedere sfumare tutti i nostri successi». 

 

Goldman Sachs all’arrembaggio della nave di Trump

OCC 1

 

 

Di Mario Lettieri (già Sottosegreteraio all'Economia) e Paolo Raimondi (Economista)

Molti negli Usa si riferiscono all’amministrazione Trump con l’appellativo “Government Sachs” in quanto ha imbarcato un numero impressionante di personaggi che, in vario modo, hanno lavorato o collaborato con Goldman Sachs, la più chiacchierata banca d’affari americana. 

Dall’esplosione della crisi globale la banca ha scalato molte posizioni nella lista delle banche americane più esposte in derivati finanziari over the counter fino a conquistare la terza posizione con oltre 45,5 trilioni di dollari di valore nozionale.

Rispetto alle prime due, la Citigroup e la JP Morgan Chase, c’è una “piccola” differenza. Essa vanta il peggiore rapporto in assoluto tra il valore dei derivati e gli asset (gli attivi), che sono soltanto 880 miliardi di dollari. Il che significa che per ogni dollaro di asset, la GS ha quasi 52 dollari di derivati, mentre  la Citigroup ne ha 28,5 e la JPMorgan 20. Per cui, se queste due ultime non navigano in mari tranquilli, per la GS il mare rischia di essere sempre in burrasca. 

Sono dati significativi quanto preoccupanti tanto che anche l’Office of the Comptroller of the Currency (OCC), l’agenzia di controllo delle banche americane, a fine settembre 2016 ha affermato che il rapporto tra l’esposizione dei crediti e il capitale di base (credit exposure to risk-based capital) era del 433% per Goldman Sachs, rispetto al 216% della JP Morgan e al 68% della Bank of America.  

Sempre secondo il citato rapporto, sei anni dopo l’entrata in vigore della riforma finanziaria Dodd-Frank, che obbligava le banche a sottoscrivere tutti i contratti derivati attraverso piattaforme regolamentate, la GS mantiene ancora il 76% dei suoi derivati in otc non regolamentati. Si tratta della percentuale più alta tra tutte le banche quotate a Wall Street.

Come è noto l’opacità dei derivati otc ha giocato un ruolo determinante nella crisi finanziaria, in quanto le banche in quel periodo avevano in gran parte sospeso di farsi credito reciprocamente sospettando buchi nascosti. Di conseguenza le stesse hanno cercato di garantirsi contro eventuali crolli accendendo polizze presso le grandi assicurazioni, in particolare con il gigante AIG. 

Solo di recente è diventato noto che circa la metà dei 185 miliardi di dollari versati dal governo americano per salvare la citata AIG è andata a beneficio delle grandi banche “too big to fail”.  Infatti la GS ne avrebbe ricevuti ben 12,9 miliardi. 

Crediamo non debba sorprendere il fatto che la GS sia sempre stata al centro delle grandi indagini per far emergere i responsabili della crisi globale, né tanto meno il conoscere che la banca sia stata in prima fila nel tentativo di bloccare tutte le riforme del sistema bancario e finanziario americano. 

E’ sorprendente, invece, che il presidente Trump continui a reclutare molti dei suoi uomini tra gli ex leader della GS. Da ultimo il suo team economico si è “arricchito” con l’arrivo di Dina Power, presidente della Fondazione della Goldman Sachs.  Ma la nomina più provocatoria indubbiamente è quella di Jay Clayton a capo della Security Exchange Commission (SEC), l’agenzia governativa preposta al controllo della borsa valori, l’equivalente della nostra Consob. Clayton è un importante avvocato che ha lavorato per la GS, cosa che la di lui moglie fa ancora. 

Si tratta della stessa SEC che ha multato più volte Goldman Sachs per operazioni illegali di vario tipo: nel 2010 una multa di 550 milioni di dollari per operazioni fraudolente con titoli tossici immobiliari subprime e un’altra di 11 milioni  nel 2012 perché alcuni suoi analisti avevano segretamente favorito dei clienti ben selezionati.

Anche la Federal Reserve nell’agosto 2016  le ha inflitto una sanzione di 36,3 milioni di dollari per aver usato informazioni confidenziali risultanti da operazioni di controllo fatte dalla stessa Fed. Per non dire della condanna a pagare 120 milioni per manipolazioni fatte sui tassi di interesse comminata nel dicembre dell’anno scorso dalla  Commodity Futures Trading Commission (CFTC), l’agenzia che ha il compito di controllare le borse delle merci e delle relative operazioni in derivati finanziari.

Non è un caso, quindi, che nelle settimane passate alcuni senatori americani abbiano chiesto alla Goldman Sachs di  rendere pubbliche le sue attività di lobby contro la legge di riforma Dodd-Frank e di conoscere l’ammontare dei profitti risultanti dalla sua cancellazione. Si ricordi che tra i primi provvedimenti del presidente Trump c’è stata l’abrogazione della citata legge.

Evidentemente, purtroppo, il presidente americano ha dimenticato quando da lui stesso detto qualche settimana fa: “Per troppo tempo, un piccolo gruppo nella capitale della nostra nazione ha raccolto i compensi governativi, mentre la gente ne ha sostenuto le spese. Washington ha prosperato, tuttavia il popolo non ha condiviso la sua ricchezza”. E’ il classico esempio di quanta distanza a volte c’è tra il dire e il fare.  

 

FEDERPETROLI SCRIVE AL MINISTRO CALENDA

FEDERPETROLIROMA, 14 Febbraio 2017 - LETTERA AL MINISTRO DELLO SVILUPPO ECONOMICO CARLO CALENDA

In merito alla situazione inerente l’indotto energetico italiano, FederPetroli Italia ha inviato una lettera al Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda  manifestando un particolare interesse nel poter fornire un elevato contributo tecnico all’attività ministeriale nell’ambito di una nuova e delineata Strategia Energetica Nazionale S.E.N. che da più anni verte in una situazione di stallo penalizzando le aziende del comparto energetico nazionale.

Il Presidente di FederPetroli Italia – Michele Marsiglia nella missiva al Ministro Calenda evidenzia lo stato di crisi che l'indotto energetico nazionale sta attraversando anche a seguito di una sbagliata legislazione che ad oggi ostacola e non permette alle aziende una focalizzazione mirata degli investimenti in Italia.

L'Italia oggi più che mai è considerata Hub strategico europeo e mediterraneo per progetti di sviluppo che da anni sono fermi sulla carta ma che non possono più attendere.

CON TRUMP LE BANCHE TORNANO LIBERE DI SPECULARE?

TRUMPA meno di due settimane dalla sua nomina, con un sorprendente "Executive Order On Core Principles for Regulating the United States Financial System", il presidente Donald Trump ha cancellato la riforma di Wall Street e del mercato finanziario americano conosciuta come “Dodd-Frank Act”.

Di Mario Lettieri (già sottosegretario all'economia) e Paolo raimondi (economista)

Le grandi banche “too big to fail” potranno da oggi tornare ad operare come prima delle crisi globale del 2008, senza restrizioni, senza regole e senza controlli più stringenti.

Questa decisione potrebbe avere delle ripercussioni pericolose e devastanti sul fronte economico e finanziario internazionale, soprattutto in Europa.

La Dodd-Frank, voluta da Obama dopo il fallimento della Lehman Brothers, avrebbe dovuto mettere dei freni alle operazioni finanziarie più rischiose. Tra le restrizioni previste c’era quella specifica di mantenere le operazioni speculative entro un limite percentuale delle loro attività. Erano previsti inoltre maggiori controlli per le banche con 50 miliardi di dollari di capitale che venivano considerate di “rischio sistemico”.

Pur non essendo una legge perfetta essa era stata, anche se parziale, una risposta alla crisi.

Come prevedibile, dopo la sua introduzione, il sistema bancario americano ha operato in modo sistematico e continuo per neutralizzarla.

Adesso, con un colpo di penna, Trump, che già in passato l’aveva definita “un disastro che ha danneggiato lo spirito imprenditoriale americano”, la abroga!

Lo abbiamo scritto qualche settimana fa quando Trump indicò Steve Mnuchin come suo ministro delle Tesoro. Ci sembrò che l’arrivo nell’Amministrazione di ex grandi banchieri avrebbe potuto significare una sicura involuzione a favore dei mercati finanziari.

Mnuchin è stato a capo della Goldman Sachs, una della banche più aggressive nel mondo della finanza. Non solo, nella nuova Amministrazione sono stati imbarcati altri grandi banchieri, tra questi Gary Cohn, ex Goldman Sachs, come direttore del Consiglio economico della Casa Bianca, e Wilbur Ross, ex capo della filiale americana della banca Rothschild, come capo del Dipartimento del Commercio.

La decisione di Trump è arrivata dopo il primo incontro del cosiddetto “Strategic and Policy Forum”, che è il suo gruppo di consiglieri privati, tra i quali Jamie Dimon, capo della JP Morgan e Gary Cohn. Quest’ultimo più volte ha dichiarato che le banche americane continueranno ad avere una posizione dominate nei mercati finanziari internazionali “fintanto che non ci escludiamo noi stessi attraverso un sovraccarico di regole”.

In altre parole si ritorna, purtroppo, al leit motiv secondo cui i mercati si autoregolamentano meglio senza interferenze e direttive del governo.

Al termine dell’incontro Trump ha addirittura dichiarato che “ non c’è persona migliore di Jamie Dimon per parlarmi della Dodd-Frank e delle regole del settore bancario”, mostrando un entusiasmo in verità degno di migliore causa.

Intanto l’ordinanza esecutiva impegna il Segretario del Tesoro, che dovrebbe appunto essere Steve Mnuchin nel caso ottenga l’approvazione del Congresso, a preparare entro 4 mesi un rapporto per una nuova regolamentazione del sistema finanziario. Si è ingenui chiedersi chi saranno i veri beneficiari di tali proposte?

Contemporaneamente è stato firmato un altro memorandum presidenziale soppressivo della regola secondo cui i consulenti devono anteporre l’interesse dei loro clienti a qualsiasi altra considerazione. Secondo Trump va invece rafforzato il principio secondo cui i cittadini devono liberamente fare le loro scelte finanziarie. Non è una cosa da poco. Infatti, in questo modo se un risparmiatore accetta di comprare un titolo ad alto rischio, anche senza capire bene i termini dell’operazione, non potrà in seguito lamentarsi delle eventuali perdite

Non è un caso che la stampa finanziaria di Wall Street abbia salutato le citate decisioni come una coraggiosa scelta di ritorno ad una accentuata deregulation. 

Tali decisioni non possono non suscitare diffuse preoccupazioni in quanti continuano a ritenere che l’economia reale debba essere centrale e tutelata rispetto alle attività speculative.

Perciò le dichiarazioni di Trump, circa una nuova legge Glass-Steagall relativa alla separazione delle attività bancarie, suonano false o come delle mere battute elettorali. C’è da sperare che la proposta di legge per reintrodurre la Glass-Steagall, presentata al Congresso da un gruppo bipartisan appena prima dell’emissione dell’ordine esecutivo, venga discussa e approvata.

E’ ancora presto per dare un giudizio definitivo sull’Amministrazione Trump, ma questi segnali sicuramente non depongono bene.

 


SUMMIT DI TAORMINA - RIPORTARE LA RUSSIA NEL G8

BANDIERA RUSSAE’ partita un’iniziativa italiana per il reintegro nel G8 della Federazione Russa. E’ un’iniziativa giusta, opportuna e che tiene conto anche degli interessi del nostro Paese.

Di mario Lettieri (già sottosegretario all'Economia) e Paolo Raimondi (economista)

I presidenti del Consiglio Italiano del Movimento Europeo (CIME), dell’istituto di ricerche sociali EURISPES e dell’Istituto Italiano per l’Asia e il Mediterraneo (ISIAMED) hanno scritto una lettera aperta al Presidente del Consiglio dei Ministri, Paolo Gentiloni, sollecitando il nostro governo a farsi promotore di azioni affinché  il presidente Vladimir Putin possa essere al summit di Taormina, al fine di costruire “ponti” e la necessaria, vera e positiva collaborazione di pace per una efficace cooperazione tra i popoli.  

Come è noto, dal primo gennaio  l’Italia ha la presidenza del G7, di cui sono membri anche gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone, la Germania, la Francia e la Gran Bretagna. Gli altri Paesi dell'Ue sono rappresentati dalla Commissione europea, che, si ricordi, non può ospitare i vertici ne presiederli.

Quindi a maggio a Taormina si terrà il prossimo summit dei capi di stato e di governo con la presenza di nuovi leader mondiali, come il Presidente americano Donald Trump, il prossimo Presidente francese e il Primo ministro inglese Theresa May.

E’ noto che, dal 1998 fino al 2014, al G8 ha partecipato anche la Federazione Russa. A seguito della crisi in Ucraina, del referendum in Crimea e delle conseguenti sanzioni, è stata impedita tale partecipazione.

Pertanto a Taormina, purtroppo, potrebbe non esserci, ancora una volta, il Presidente della Federazione Russa. In merito riteniamo che il meeting potrebbe essere l’occasione per l’Italia per spingere verso la riapertura di un dialogo costruttivo con Mosca. La Russia, non sfugge a nessuno, è un partner importante. Lo è ancor di più per l’Unione europea, se davvero si vuole agire per affrontare le tante questioni globali. La soluzione di problemi quali quello della sicurezza e delle migrazioni e ovviamente quelli relativi ai costruendi nuovi assetti pacifici e multipolari, non può prescindere dal coinvolgimento della Russia.

Si ricordi che il 2016 si è purtroppo chiuso con il massacro terroristico di cittadini inermi nel mercatino di Natale a Berlino e il 2017 è cominciato con l’orrendo attentato di Istanbul. Sono eventi che pongono al centro della politica europea ed internazionale la questione della sicurezza e della pacificazione e risoluzione dei troppi conflitti regionali  che, come dice il Papa, nel loro insieme, anche se a pezzi, costituiscono la terza guerra mondiale.

Le grandi istituzioni internazionali, a cominciare dall’ONU e dall’Unione europea, sono chiamate ad assumere delle  responsabilità dirette. Ma anche i vertici G20, G7 e G8 sono importanti organismi di coordinamento per affrontare le cause delle tante tensioni legate soprattutto alle maggiori sfide economiche e geopolitiche e dare indicazioni sulle soluzioni più adeguate e condivise.

Perciò riteniamo positivo che il primo ministro Gentiloni abbia già sottolineato la necessità per tutti di abbandonare la logica della guerra fredda, senza rinunciare ai principi, Lo sono anche le recenti dichiarazioni del Ministro degli Esteri, Angelino Alfano, che sembra sollecitare il rientro della Russia nel G8.

Ciò potrebbe aiutare anche la stessa Unione europea a recuperare un ruolo più incisivo nel contesto internazionale. Il vertice di Taormina, città di grande storia proiettata nel Mediterraneo, potrebbe, quindi, essere davvero l’occasione per aprire nuove prospettive di cooperazione e crescita comune.

L’esclusione della Russia sarebbe non solo inopportuna e ingiustificata, ma darebbe l’impressione di una decisione negativa esclusiva dell’Europa, tenuto conto delle più recenti dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti.

Mancando la Russia, oltre alla Cina e all’India che non vi hanno mai fatto parte, il G7 rischia di essere visto nel mondo come un club di amici dell’Occidente. Un club di Paesi che, rispetto al loro Pil, sicuramente occupano le prime posizioni mondiali, ma hanno economie in prolungata stagnazione.

Si rammenti che le perduranti sanzioni incrociate con la Russia penalizzano esclusivamente le economie europee. In proporzione, è l’Italia a rimetterci di più. Se ciò è vero, come è vero, il nostro Paese non può non cogliere l’opportunità di Taormina per assumere un ruolo più incisivo ed avere un maggiore spazio nella scena internazionale, a partire dal Mediterraneo e dalla stessa Europa.

 

IL SISTEMA BANCARIO INTERNAZIONALE NAVIGA PERICOLOSAMENTE A VISTA

Di fronte alle crisi bancarie che investono di volta in volta differenti Paesi della zona euro, la cosa peggiore, e suicida, che l’Unione europea possa fare sarebbe di trattarle come mere questioni nazionali. Oggi sembra toccare all’Italia, domani chissà.

 

Di Mario Lettieri e Paolo RaimondiNAVIGARE A VISTA

Ne è prova il fatto che le autorità preposte, a cominciare dalla Banca centrale europea, dalle banche centrali nazionali e dalla Commissione europea, navigano a vista, senza una chiara politica. Non si tratta, infatti, di tamponare gli effetti finanziari ed economici della grande crisi globale, ma di approntare misure che neutralizzino in modo definitivo la finanza della speculazione senza regole e che rimettano in moto lo sviluppo produttivo.

Gli attuali grandi problemi del sistema bancario italiano hanno due nomi: crediti inesigibili per oltre 200 miliardi di euro e gravissime responsabilità degli amministratori delle banche e degli organi di controllo della Banca d’Italia.

Il primo problema, ovviamente, è in gran parte dovuto agli effetti della crisi globale, che ha portato ad una drastica diminuzione nelle produzioni, nei commerci e nei consumi. Ciò ha messo molti imprenditori in ginocchio, rendendoli impossibilitati a mantenere la regolarità dei pagamenti e dei rimborsi per i prestiti precedentemente chiesti ed ottenuti.

Per il secondo problema si dovrebbe invece mettere sotto i riflettori le banche e soprattutto la Centrale Rischi della Banca di’Italia. Come è noto, le banche e le società finanziarie devono comunicare mensilmente alla Banca d’Italia il totale dei crediti verso i propri clienti, sia i crediti superiori a 30.000 euro che i crediti in sofferenza di qualunque importo. Il compito primario della Centrale Rischi è quello di valutare i crediti concessi per rafforzare la stabilità del sistema bancario. Si sottolinea inoltre che dal 2010 essa scambia queste informazioni con le altre banche centrali europee e con la Bce.

Come è possibile, dunque, che, sia a livello nazionale che a livello europeo, siano stati permessi e tollerati prestiti e altre operazioni finanziarie che, stranamente solo oggi, scopriamo essere ad altissimo rischio?

Comunque nel sistema europeo vi sono molte altre anomalie che meritano attenzione ed interventi correttivi. L’Autorità bancaria europea, per esempio, oggi giustamente analizza criticamente i crediti concessi dalle banche ma, nel contempo, permette un leverage altissimo per le banche. Permette cioè che siano sufficienti tre (3) euro di capitale per creare finanza per 100. Permette anche che certe attività finanziarie, come i cosiddetti asset di terza categoria, che sono in gran parte derivati asset backed security, trattati e tenuti fuori mercato e quindi con un valore altamente incerto, vengano contabilizzati dalle banche secondo criteri interni molto convenienti alle stesse.

Dopo il 2008 dovrebbe essere ovvio tener conto del fatto che l’intero sistema bancario internazionale è profondamente interconnesso e perciò pericolosamente esposto al contagio e a crisi sistemiche. Eppure Bruxelles, Francoforte, e spesso anche Berlino e Parigi, preferiscono, sbagliando, l’approccio nazionale a quello europeo. In questo modo si rischia di giocare al massacro.

Ce lo ricorda anche l’Office of Financial Research (OFR), l’agenzia del ministero del Tesoro americano, creata nel 2010 dalla legge di riforma finanziaria, la Dodd-Frank, con il compito di studiare i lati oscuri del sistema finanziario allo scopo di ridurne i rischi.

Nell’ultimo rapporto dello scorso dicembre l’OFR ammonisce che le banche americane di importanza sistemica si sono esposte per oltre 2 trilioni di dollari nei confronti dell’Europa, di cui circa la metà in derivati otc tenuti fuori bilancio.  

Quando Wall Street  e le banche americane vendono derivati lo fanno per proteggersi da eventuali fallimenti; quando invece li acquistano esse offrono una copertura a eventuali crisi di altre banche. In questo caso di quelle europee.

Consapevoli delle difficoltà bancarie in Europa, gli Usa hanno lanciato questo allarme. L’OFR ne ne lancia anche un altro tutto interno al sistema di Wall Street. Avvisa che già alla fine del 2015 anche le assicurazioni americane sulla vita hanno abbondantemente superato i 2 trilioni di dollari in derivati finanziari. Il 60% di tale “montagna” sarebbe stato sottoscritto soltanto dalle 9 maggiori banche americane ed europee, quelle too big to fail: Goldman Sachs, Deutsche Bank, Bank of America, Citigroup, Credit Suisse, Morgan Stanley, Barclays, JPMorgan Chase e Wells Fargo.

L’allarme non è da sottovalutare, si ricordi che soltanto l’AIG, il gigante delle assicurazioni, a suo tempo dovette essere salvato con 182 miliardi di soldi pubblici!

Anche in questo caso si evince la urgenza di rispondere alla globalizzazione dei mercati finanziari e del sistema bancario con regole globali e condivise.

 

*già sottosegretario all’Economia  **economista

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