INTERVISTA DI SARA DE SANTIS A FRANCO FABBRI. MUSICOLOGO E DOCENTE UNIVERSITARIO

INTERVISTA DI SARA DE SANTIS A FRANCO FABBRI. MUSICOLOGO E DOCENTE UNIVERSITARIO

Milano, 20 gennaio 2022. Di Sara De Santis

Franco Fabbri, musicista, musicologo e saggista di fama internazionale, Visiting Professor di popular music all'Università di Huddersfield (UK), è noto anche per essere stato chitarrista e cantante degli Stormy Six, gruppo italiano che tra il 1965 al 1983 spaziò tra progressive rock e canzone politica.

Dall’ 8 marzo 2022 Fabbri sarà docente nel Master in “Editoria e Produzione musicale”, coordinato dal Prof.Luca Cerchiari, presso l’Università IULM di Milano, tenendo il corso di popular music nell’ambito dell’insegnamento di Etnomusicologia.

Franco Fabbri è stato ricercatore presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Torino, insegnandovi fino al 2015.

Dal 2004 è docente presso l’Università Statale di Milano (“Elementi di economia dei beni musicali”), il Conservatorio di Parma (“Storia della popular music e Storia delle forme e dei repertori musicali”) e lo IED (Istituto Europeo del Design di Milano).

Fabbri ha tenuto conferenze all’estero (Spagna, Gran Bretagna, Francia, Germania, Finlandia, Lituania, USA, Serbia) ed è stato tra i promotori, oltre che, poi, anche Chairman, della IASPM (International Association for the Study of Popular Music); è stato infine (con Alessandro Carrera, Umberto Fiori e altri) tra i fondatori, negli anni Settanta, della cooperativa l’Orchestra, dirigendone le attività discografiche, le manifestazioni culturali e la relativa scuola popolare di musica.

Nel 1978 Franco Fabbri pubblica per Mazzotta La musica in mano.

Manuale di teoria musicale, che nasce dall’incontro tra l’esperienza esecutiva e l’insegnamento della teoria musicale all’interno delle scuole popolari di musica.

Negli anni successivi inizia la sua carriera accademica, e Fabbri firma diversi saggi teorici, in alcuni dei quali vi sono accenni ad una possibile teoria dei generi musicali.

Tra i suoi diversi libri ricordiamo La musica che si consuma, Album bianco. Diari musicali 1965-2000, L’ascolto tabù.

Le musiche nello scontro globale, Around the clock. Una breve storia della popular music e il più recente Il tempo di una canzone. Saggi sulla popular music.

Nell’intervista che segue Fabbri parla della sua esperienza di docente come di qualcosa nata per caso, come un percorso naturale che in un modo o nell’altro avrebbe dovuto intraprendere.

Durante le sue lezioni il focus per Fabbri è sempre lo studente; infatti, sottolinea come il rapporto con quest’ultimo sia sempre stato estremamente importante, pur mutando nel tempo.

Con l’avvento dei social network e dei canali digitali, qual è stato il cambiamento più significativo nella fruizione della musica?

«Gli studenti e quelli che ascoltano musica, oggi, hanno a disposizione una scelta molto più ampia di quelli della mia generazione. Prima l’ascolto era legato alle musicassette, ai supporti fisici (come i giradischi, ad esempio) ed i tempi erano dilatati poiché si aveva pazienza e ci si accostava alla musica in modo diverso. C’era un’attenzione più prolungata. I media dell’epoca proponevano delle scansioni temporali più dilatate; ad esempio, si vedevano molti film e se ne discuteva. Se oggi durante una lezione parlo di “Via col vento”, probabilmente nessuno ricorda la colonna sonora. C’è poca pazienza nella fruizione ed inoltre non vi è più abitudine ad ascoltare degli album interi, si ascoltano i singoli. Così facendo si accorciano i tempi medi delle canzoni; a quanto pare questo è dovuto dal fenomeno skip su Spotify. Se la canzone è troppo lunga ed uno si annoia, basta premere un semplice tasto. Oggi, i discografici suggeriscono di fare pezzi più brevi ed anche negli studi di registrazione, basta sovrapporre le tracce per registrare un singolo. Sembra esserci una scarsa abitudine alla durata anche nel farla, la musica. Purtroppo, avere a disposizione molti click ti porta a non metabolizzare nulla».

Quanto è importante lo studio della teoria musicale all’interno del percorso di studi superiori?

«La teoria musicale non si è mai potuta studiare nella scuola superiore.

Questa cosa mi faceva imbestialire anche quando ero al liceo.

Studiavo per conto mio, e suonavo già, anche professionalmente.

Dicevo: “Ma perché devo andare alla maturità studiando il romanticismo in letteratura e in pittura, e invece Schubert non devo sapere chi è, come anche Beethoven?

Vi era una totale assenza di interdisciplinarità.

Ma oggi che l’educazione musicale scolastica esiste, una domanda risulta centrale: chi forma i formatori musicali?

Molti si sono occupati di immaginare un modo diverso di educare e di insegnare la musica. Sicuramente non ce n’è traccia negli insegnamenti musicali nei Conservatori. Alla fine, uno si ritroverebbe a tramandare a livello educativo la teoria musicale classica che si applica ad un periodo importante ma ristretto, a perpetuare i giudizi tra i generi musicali. Ci sarebbe bisogno di un approccio che non feticizzi la scrittura musicale, in modo tale che le persone non si sentano in colpa. Ovvio che è utile saper leggere la grafia musicale, ma non è l’unico modo per accedere alla fruizione musicale. Sicuramente bisognerebbe elaborare dei programmi scolastici più articolati”

Quanto ha influito la sua carriera artistica su quella accademica?

«Ha influito tantissimo perché all’interno degli Stormy Six ci si confrontava continuamente. Era necessario trovare un linguaggio comune, dialogare. Nelle lunghe notti in camioncino discutevamo approfonditamente di quello che facevamo o volevamo fare, della nostra intenzione musicale. Per me è stato un periodo di formazione più intenso di qualunque Master universitario».

Questo ci ricorda il lavoro dei Cantacronache, negli anni Sessanta.

«Sicuramente ci confrontavamo, così come si confrontavano loro. Con Fausto Amodei ho parlato a lungo, mi ritrovavo molto nel lavoro che facevano loro. Amodei mi ha raccontato che la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata Casetta in Canadà, una canzone del 1957; da quel momento hanno pensato di fare qualcosa. Loro subivano fortemente l’influenza di Adorno, erano anche musicisti di formazione classica o comunque avevano più rapporto con la cultura colta rispetto che con quella popolare (che hanno scoperto dopo), quindi su di loro facevano molto presa gli scritti polemici e snobistici di Adorno sul jazz e sulla canzone.

Più tardi si è capito che fossero scritti altezzosi, sul jazz in particolare modo, poiché ne sapeva poco o niente».

Esaminiamo il termine cantautore. Perché si ha poca memoria storica della canzone d’autrice nel nostro Paese? Perché la parola cantautore viene sempre associata alla figura maschile e non vi è, nell’uso comune, un corrispettivo al femminile?

«Un dato paradossale è che la stessa parola cantautrice è stata inventata da una donna, ovvero Maria Monti. Il fatto che sia stata adottata e sia entrata nel lessico dipende dagli orientamenti dell’editoria musicale e della discografia di quell’epoca. I discografici avevano bisogno di un termine che non fosse burocratico e che non avesse le connotazioni poco utili del termine chansonnier, che però era effettivamente il più usato fino a Modugno.

Questo perché nell’Italia del monopolio RAI e nella commissione d’ascolto, qualificare un cantante come chansonnier faceva subito pensare alla tradizione anarchica e di sinistra della chanson francese.

I primi ad essere chiamati così erano quei cantautori leggeri e divertenti come Gianni Meccia, Nico Fidenco, quelli della prima scuola romana, dell’etichetta discografica RCA. Il bisogno di usare questo termine, pur conservando l’egemonia maschile, era un dato di fatto e scontato in quegli anni in Italia. Quando ho iniziato, nella metà degli anni Sessanta, a frequentare le case discografiche con gli Stormy Six, le donne erano tipicamente le segretarie.

E anche i direttori artistici, i produttori, erano tutti uomini e per questo era normale che ci fosse un senso di cameratismo militaresco. Conosco pochissime donne che svolgono dei ruoli importanti nell’industria discografica.

I tecnici del suono, i session man, sono tutti uomini ed è una cosa che in un certo senso caratterizza molto l’Italia.

In altri paesi la presenza femminile è sempre stata, se non paritaria, abbastanza significativa. La presenza femminile anche ai convegni è ancora oggi una rarità, purtroppo».

Questo avviene anche nell’ ambito della critica musicale e della musicologia?

«Nel campo della popular music, ad esempio, non c’è molto spazio per le donne. Poiché a livello culturale ed istituzionale ci sono due resistenze da superare: una è quella del campo di studi, l’altra quella di genere. Lo stato non tutela la figura del critico o del musicologo e per le donne diviene molto difficile percorrere questo tipo di professione».

Quali dovrebbero essere gli interventi che lo Stato dovrebbe fare per mantenere vive e percorribili tali professioni?

«Il problema riguarda tutto il sistema dell’informazione. Il nostro sistema non è stato in grado di intervenire sulla struttura della carta stampata ed è per questo che, con l’avvento dei giornali online e dei siti web, vi è stata un’importante riduzione dei lettori paganti; inoltre, lo Stato non è stato in grado di pagare i professionisti dei giornali. Prima anche io riuscivo a vivere scrivendo, mentre oggi nessuno mi paga, lo faccio per passione. La mia visibilità professionale, a livello di scrittura mediatica, come quella di tanti critici, è quasi inesistente. Molti critici musicali dei principali quotidiani italiani, titolari della critica, ormai non scrivono più. Nei giornali pubblicano qualcosa quando c’è la Prima del Teatro alla Scala, e in generale prima del suddetto evento. Si dovrebbe mettere mano ad un riordino del sistema. È difficile, molto. Però se una pizzeria perde clienti per via della pandemia, è normale che il governo dia dei ristori per i mancati incassi, e invece tutti quelli che scrivono o che hanno scritto sui giornali italiani sono stati praticamente licenziati, spesso senza la possibilità di una Cassa integrazione e senza che lo Stato facesse una piega».

Quale potrebbe essere, secondo lei, il ruolo dei critici della vecchia leva e dei musicologi per avvicinare le nuove generazioni alla teoria musicale e alla critica?

«Non riesco ad immaginare una strategia collettiva per questo, credo che sia una responsabilità individuale nel modo in cui uno scrive. Il critico o il musicologo devono affrontare sempre con serietà e profondità l’argomento trattato, rinunciando contemporaneamente ai piccoli trucchi retorici che hanno creato le personalità di molti critici; purtroppo, vi è ancora un certo modo di scrivere “oscuro” che sembra dire chissà che cosa ma che confonde le idee a chi legge. Per farlo bisognerebbe avere una grande padronanza di ciò di cui si parla. Però nella storia abbiamo verificato che è più facile avere successo ricorrendo a questi trucchi retorici che approfondendo l’oggetto di cui si parla. Molti hanno una formazione di tipo conservatoriale e pensano che il linguaggio tecnico sia la chiave. Ma non è vero che limitando gli argomenti tecnici si possa essere più comprensivi. Questa è la sfida».