USA vs Cina: è guerra (per ora) fredda sullo Yuan

Non è una novità che negli ultimi tempi le tensioni tra Stati Uniti e Cina sul basso livello della valuta del maggiore paese asiatico hanno raggiunto livelli molto elevati. Le accuse rivolte a Pechino da Washington di tenere artificialmente basso lo Yuan a vantaggio delle esportazioni cinesi a discapito di quelle americane erano finora rappresentate da dichiarazioni, borbottii e mal di pancia. Ma ora si fa sul serio. Martedì il Senato americano ha approvato con una maggioranza bipartisan (63 voti favorevoli e 35 contrari) un disegno di legge che prevede l’alzamento di barriere doganali a danno dei paesi che manipolano la propria valuta al ribasso per il loro tornaconto. Pechino ha già dato segni di reazione: la Banca centrale cinese ha fatto scendere il valore dello Yuan al limite minimo della banda di oscillazione a 6,3598 per dollaro contro i 6,3483 della vigilia. Da giugno 2010 a oggi lo Yuan aveva recuperato il 7% sul dollaro, accompagnato da una lenta ma progressiva rivalutazione. La mossa di Pechino è segno inequivocabile che, se guerra deve essere, guerra sarà. C’è da evidenziare, però, che il provvedimento americano è ora all’esame della Camera il cui presidente, leader repubblicano John Boener, ha già preso posizione contro la proposta, affermando che la guerra commerciale che ne seguirebbe danneggerebbe entrambi i paesi. Se dovesse passare anche alla Camera potrebbe essere il veto di Obama a neutralizzare la legge, cosa che però avrebbe per il presidente gravi ripercussioni politiche, dato che la misura relativa ai dazi è vista di buon occhio dalla maggior parte dei Democratici. Il leader dei Democratici alla Camera Nancy Pelosi ha addirittura definito tale misura più importante dei trattati di libero scambio con Sud Corea, Colombia e Panama per cui Obama si sta battendo senza successo da più di un anno. A giudizio di Barclays Capital, qualora una norma simile dovesse entrare in vigore, Pechino potrebbe a sua volta alzare dazi sull’import di beni e servizi dagli Stati Uniti e/o introdurre un’imposta sulle multinazionali statunitensi presenti nel colosso asiatico. Da un lato si potrebbe profilare una tendenza di lungo periodo a far rientrare in America la produzione esternalizzata in Cina, ma nel breve termine aumenterebbe la probabilità di recessione e inflazione, proprio in un momento critico per i cittadini americani, considerando l’elevato tasso di disoccupazione. Staremo a vedere se prevarrà la linea diplomatica o quella dello scontro aperto.

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