La Sec vieta la performance fee

          La Sec ha proposto un emendamento alla regolamentazione della performance fee nel servizio di consulenza. La regola base è il divieto di applicare performance fee al servizio di consulenza. Quindi il consulente deve essere remunerato non in base ai risultati che il cliente ottiene dai consigli ricevuti, ma in modo indipendente dalla bontà delle raccomandazioni elargite. E’ una regola quasi europea, dove i professionisti (avvocati, medici, commercialisti, etc.) insistono per basare la loro remunerazione sul servizio prestato e non sui risultati (in breve l’avvocato si paga anche quando si perde la causa).

La Sec vieta la performance fee

Nella consulenza statunitense la regola subisce eccezione (tanto lata da essere quasi regola generale essa stessa) quando il cliente sia un investitore qualificato (“qualified client”) e abbia un patrimonio oggetto di consulenza (“assets under management”) di almeno 750.000 dollari oppure il consulente stimi che il patrimonio complessivo del cliente sia di almeno 1,5 milioni di dollari. La SEC propone ora d’innalzare queste soglie rispettivamente a 1 e 2 milioni di dollari, con esclusione dai calcoli della prima casa e del relativo mutuo. Si tratta di un aggiornamento che tiene conto dei nuovi valori della moneta americana e dei processi inflattivi del periodo, ma è anche sostanziale. In euro, al cambio attuale, si tratterebbe di patrimoni di 1,4 e 2,8 milioni. Una cifra ragguardevole. Il nostro regolamento sui consulenti finanziari, peraltro figura ancora in attesa della istituzione del proprio albo e quindi giuridicamente in stato di gestazione, nulla dice al riguardo.

La commissione di performance è disciplinata in modo molto parziale dalle norme sul servizio di gestione collettiva del risparmio e non prevede aree di esclusione, ma solo divieti relativi alle modalità di calcolo. Per completare il quadro, aggiungiamo che la normativa europea non si occupa direttamente della materia e alcuni paesi sono molto più benevoli del nostro nel consentire l’applicazione della performance fee. Il punto essenziale non è questo. Importante è rilevare come la regolamentazione di un paese molto più evoluto finanziariamente dell’Europa e con solide tradizioni nel campo della consulenza finanziaria, sia fee only sia accompagnata da commissioni di collocamento o di altro servizio, vieti da tempo di applicare commissioni di performance alla clientela retail e anche a quella “qualificata” se non raggiunga congrui livelli di portafoglio. Anzi l’ultima riforma, la Dodd- Frank Act, ha innalzato questi limiti, dando mandato alla SEC di aggiornarli ogni cinque anni in relazione all’inflazione del periodo. La norma deve essere intesa a tutela del “consumatore” e quindi bisogna pensare che l’esperienza americana suggerisca che sia rischioso allettare il consulente, ma forse lo stesso investitore retail, con lucrose commissioni di performance, riducendo il suo senso del rischio e spingendolo ad assumere rischi che altrimenti non farebbe correre al proprio cliente. In breve il consulente non deve essere indotto in tentazione sui quattrini altrui col rischio che esponga il cliente ad azzardi che potrebbero ledere l’integrità del mercato, nonché il patrimonio dello stesso cliente. Verrebbe da chiedersi come mai si vieti l’”azzardo morale” di semplici consulenti nei confronti dei propri clienti/consumatori, mentre non si pongano limiti o regole alle retribuzioni di manager e istituzioni che hanno messo a repentaglio, e continuano a farlo, la stabilità dei mercati e forse l’intero sistema finanziario mondiale. Questa è una domanda troppo complicata. Ci chiediamo se questo aspetto sia stato esaminato in Italia e se ne sia stata proposta una soluzione, vuoi regolamentare vuoi in sede di autodisciplina oppure se il problema sia stato giustificato inesistente. Ovviamente non è detto che la soluzione statunitense sia la migliore, ma va quanto meno esaminata, specie nella sua genesi, e, in ogni caso, bisogna dare un’adeguata tutela alla clientela retail.