IL SENSO CIVICO

IL SENSO CIVICO

Trento, 23 aprile 2023. Di Paolo Rosa, avvocato, Foro di trento. Esperto di Diritto del Lavoro e Previdenziale.

Cittadini non si nasce, ma si diventa. Oggi, accanto al deficit pubblico, c’è un deficit civico e un deficit di legalità.

Se chi va al Governo, e vale per tutti, pensa alla propria parte politica guardando ai sondaggi e non al benessere complessivo, non ne usciremo mai e la distanza tra il corpo elettorale e gli eletti diventerà incolmabile.

Nella narrazione ogni leader ha i suoi bambini, se ci pensate bene.

«Le origini della cittadinanza, in Occidente, intesa come partecipazione del cittadino alla cosa pubblica, sono senza dubbio rintracciabili nell’antica Grecia, luogo storico dove nacque l’idea di democrazia e dove nel tempo si svilupparono diversi ordinamenti politici nel tentativo di realizzarla.

Molti sarebbero dunque pronti a riconoscere ai Greci questo primato.

Nondimeno, tale primato non è scevro di critiche e giudizi negativi: la presenza importante della schiavitù, l’esclusione delle donne dalla sfera pubblica, la conflittuale chiusura nei confronti dei barbari e l'estromissione degli stranieri dalla cerchia privilegiata dei cittadini.

La cittadinanza greca si presenta dunque non priva di contraddizioni: condizione di privilegio riservata a un gruppo ristretto di persone, piuttosto che espressione vera e propria di un principio democratico.

Ciò accadeva tanto nella Grecia spartana quanto nell’Atene di Pericle. Al contrario, la questione appare differente se ci si sposta a Roma, dove sembra possibile riscontrare una maggiore generosità, proprio in relazione al concetto di cittadinanza.

Alla chiusura greca – il cui culmine paradossalmente si raggiunse proprio nell’Atene di Pericle (simbolo, per eccellenza, di democrazia) –, appare dunque opporsi l’Impero Romano, portatore di una grande apertura, che trova la sua massima espressione nella Constitutio Antoniniana, editto emanato nel 212 d.C. dall’imperatore Antonino Caracalla, Materialismo Storico, n° 1/2019 (vol. VI) 166 con il quale si concedeva la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero, e con la “conseguente” scelta, dopo pochi anni, di un imperatore barbaro, nato senza cittadinanza romana (l’imperatore Massimino, un barbaro della Tracia che ottenne il titolo imperiale nel 235 d.C.)» (da Il mito dell’appartenenza. Politeia greca e civitas romana a confronto di Giovanna Errede).

La nostra democrazia vive una crisi profonda al punto che ogni due anni cerca, disperatamente, il nuovo da cavalcare essendo scomparse le ideologie e il corpo elettorale è molto liquido con la conseguenza che il voto è fluttuante accanto al non voto che rappresenta il partito di maggioranza relativa.

L’eccesso normativo e burocratico aumenta, esponenzialmente, il rischio della corruzione e quindi vi è la necessità di regole più chiare per tutti.

Le considerazioni generali del 56esimo Rapporto Censis 2022, che pochi hanno letto, descrivono bene la situazione italiana:

1. Dove siamo? Affrontare di nuovo la domanda con la quale la nostra cultura occidentale ci interpella fin dalle origini sembra essere un bisogno profondo della società italiana. Tre anni, quattro crisi profonde e diversi improvvisi cambi di direzione giustificano la necessità di ritrovarsi, di ridisegnare vie confluenti di risalita dei consumi e del benessere, di riempire i vuoti lasciati dal mancato sviluppo. Il mondo è diverso, l’embrione di una fase nuova non ancora si è messo in moto. Da qui un interrogativo che esprime la consapevolezza che tutto è cambiato e la coscienza che, se la classe dirigente non sa affrontare il “dove siamo”, non potrà avere cura delle nostre cose e del Paese.

2. Tante rincorse, una rincorsa. Si può dire, con buona ragione, che siamo di fronte a sconvolgimenti veloci, inaspettati, difficili da metabolizzare; a un rimescolamento delle carte e a un ridisegno delle planimetrie sociali. In questi anni abbiamo visto il moltiplicarsi di rassicurazioni: da “andrà tutto bene” al “faremo tutti un passo avanti”, fino al più attuale “daremo risposte immediate ed efficaci ai problemi del Paese”. Le crisi veloci impongono reazioni veloci. Anche al costo di perdere di vista la capacità di responsabilità collettiva; tutto serve se rassicura: moltiplicare i decreti per necessità e urgenza, estrarre dai cassetti progetti di lunga data, favorire le dinamiche economiche sommerse, delineare programmi di ricostruzione o di sviluppo in ogni ambito possibile. Funziona, nell’emergenza; ma che cosa riunirà tutte le rincorse una volta compreso che le crisi non lasciano tempo alla risalita a passo svelto nel sentiero dello sviluppo?

3. La società non regredisce e non matura. Il nostro Paese vive in una sorta di latenza di risposta, in attesa che i segnali dei suoi sensori economici e sociali siano tradotti in uno schema di adattamento, funzionamento, mappatura della realtà e dei bisogni. Le riforme e il riposizionamento dei sistemi istituzionali, il rinforzo degli apparati pubblici e delle regole per il loro funzionamento, la riduzione delle iniquità territoriali e sociali faticano a declinare effetti concreti. Il nostro Paese, nonostante lo stratificarsi di crisi e difficoltà, non regredisce grazie allo sforzo e al rischio individuale, ma non matura. Riceve e produce stimoli a mettersi sotto sforzo, a confrontarsi con le ferite della storia, ma non manifesta una sostanziale reazione, vive in una sorta di latenza di risposta.

4. Il futuro nascosto nel presente. Gli angoli ciechi delle incertezze future si moltiplicano e crescono senza sosta. Nell’urgenza di dare risposte, tutto si giustifica e in qualche modo tutto si tiene: ogni bonus, sussidio, promessa, intervento ha avuto le sue ragioni. Resta la realtà che l’Italia non cresce abbastanza o non cresce affatto. Non si va però concretamente avanti se non si esce dalla povertà dell’attuale dialettica sociale.

5. Non funziona più il solo far da sé. Nel codice genetico del Censis, e di questo Rapporto, vive la convinzione che la società cresce, si adatta, si trasforma continuamente, come l’argine ridisegnato dalla realtà del fiume che scorre. Grazie a una capacità, essenziale allo sviluppo, di combinare insieme soluzioni efficaci, anche se poco efficienti: un po’ di sommerso e un po’ di evidente, un po’ di sociale e un po’ di politico, una dose di furbizia con una di cinismo, una di fantasia per arrangiarsi e una di innovazione tecnologica e organizzativa per uscire dalla crisi, un po’ d’istinto e un po’ di competenza. Un far da sé per andare oltre se stessi che oggi, da solo, non funziona più, non ha più sufficiente spinta a generare il nuovo.

6. Risalire dalle foci alle sorgenti. L’attenzione alla qualità delle cose che abbiamo intorno, concreta base delle co-responsabilità del nostro futuro, richiede di rinegoziare il nostro modello di sviluppo, interrompere l’inerzia delle reti di rappresentanza e di appartenenza, spiazzare l’atteggiamento corrente della nostra cultura sociale e politica. La perdita di consapevole bisogno di orientamento collettivo e la rinuncia individuale al consolidarsi degli schemi proiettivi di media e lunga durata, che così significativamente ha caratterizzato gli ultimi anni, ripropone l’esigenza, fin qui sopita, di ritornare a sperimentare innovazione istituzionale, di ritrovare il gusto e il coraggio dell’inquietudine, di rilanciare una nuova fase dei meccanismi decisionali. Poco o nulla di tutto questo possiamo registrare nella cronaca e nella programmazione di questi tre anni di crisi.

7. La perseveranza come mezzo e come fine. Il tempo di uscita dalla pandemia, dalla guerra, dalla crisi energetica sembrava poter essere breve; la realtà ci ha dimostrato che dobbiamo allenare l’arte della pazienza, della ricerca di un inatteso fecondo che trattiene la vita nella vita, che non la lascia scivolare all’indietro. Che possiamo e dobbiamo esercitare la perseveranza, come mezzo e come fine, in una lotta lunga di uscita dalla latenza di risposta del sistema sociale, poiché è feconda nel suo operare ma pericolosa nel suo prolungarsi.

8. Non solo rassicurazione è la politica. Tra le affermazioni pubbliche degli ultimi mesi, dentro e fuori la vita politica, ricorre la convinzione che spetta alla politica e agli ordinari processi democratici il compito di regolamentare, promuovere, tutelare i diritti e i processi di sviluppo. Lo slogan dell’“uno vale uno” ha lasciato il posto alla competenza degli scienziati, degli strateghi militari, degli economisti dell’energia che, a loro volta, sembrano richiesti di cedere il passo, di nuovo, alla politica. Non per ridare vigore al processo di sviluppo o vie d’uscita dalla spirale del declino dell’economia e della struttura sociale, piuttosto per offrire la sicurezza che, grazie alla politica, i problemi sul tappeto di ciascuno saranno presto rimossi. L’anno che si va chiudendo porta la testimonianza di un intenso e fertile lavoro di ricucitura interna e di recupero di credibilità della politica italiana sia nello scenario nazionale, sia sul piano internazionale. La guerra, la crisi energetica, la carenza di materie prime e di componenti, il contrasto al degrado ambientale e al riscaldamento globale, sono esempi di un ritrovato campo d’impegno delle decisioni politiche e delle loro concrete attuazioni.

Un tentativo di ritorno che corrisponde a un’ansia diffusa di ripartenza dello sviluppo sociale, ma che, nella prospettiva di rassicurazione a breve, perde di vista il medio e lungo periodo. Con una sovrapposizione a pendolo delle idee e dei programmi, la scelta politica si risolve in dibattiti di corto respiro e in un lavorio programmatico dibattuto in sedi ristrette, spesso ignaro della tradizionale costellazione di soggetti e culture di sintesi socio-politica della nostra storia.

Solo che oggi la politica non ha un suo stile e li usa tutti; vede prospettive oscillare, tessuti lacerarsi, aspettative disattese e preoccupazioni crescenti, e ancora non affronta se e come diventare una sede proponente di sintesi e di convergenza sociale. La classe dirigente è chiamata a permettere alla società l’esercizio della pazienza, perché si sappia affrontare la domanda “dove siamo, tutti insieme, nel nostro tempo?”» (56esimo Rapporto Censis 2022).

Il prof. Michael Walzer, filosofo-sociologo della politica americana, anziano ma molto moderno, individua tre requisiti curriculari di importanza critica per l’educazione del cittadino:

«Il primo requisito probabilmente può essere meglio soddisfatto al livello delle scuole superiori, perché implica qualcosa di simile a quanto si usava chiamare «educazione civica». Gli studenti hanno bisogno di imparare una scienza politica pratica della democrazia; hanno bisogno di un corso dove si studino il funzionamento quotidiano dei ministeri di governo, delle assemblee rappresentative, delle corti, dei partiti, dei movimenti sociali e così via. Questa è la parte meno controversa dell’educazione democratica. Ciò nonostante, v’è un importante lavoro educativo da fare qui: insegnare agli studenti a pensare se stessi come futuri partecipanti nell’attività politica, non meramente come spettatori bene informati.

E siccome lo spettacolo è spesso tutt’altro che edificante e invitante, gli insegnanti devono evidenziare come il sistema democratico non sia mai chiuso, il suo carattere non sia mai deciso una volta per tutte.

Nonostante tutte le rigidezze burocratiche, ci sono sempre delle opportunità per persone con idee nuove o diverse. Gli studenti dovrebbero essere incoraggiati a sperimentare le dottrine politiche, e si dovrebbe insegnare loro come discuterle davanti ai loro pari e all’interno di specifici ambiti istituzionali.

Secondo, gli studenti hanno bisogno di studiare la storia delle istituzioni e delle pratiche democratiche dall’antica Grecia in avanti, e parallelamente devono imparare e misurarsi con la preferenza di vari gruppi religiosi per forme di governo non democratiche.

Forse insegnanti in scuole con molti studenti cattolici, ebrei o musulmani cercheranno modi per naturalizzare la democrazia all’interno di tradizioni che sono state nei fatti ostili ad essa, ma io sarei per favorire un confronto onesto con le forme di governo - di re o preti o saggi religiosi - preferite dalla religione.

Dopo tutto, la democrazia è una cultura della critica e del dissenso.

Ci sono vari modi per aiutare gli studenti a sentirsi a casa propria in una società democratica, e la pretesa che tutti ci abbiamo da sempre vissuto non è necessariamente la migliore. Certamente non è il modo più onesto, e i giovani generalmente riconoscono e rifuggono la disonestà.

Ciò detto, non penso che sia sbagliato raccontare la storia cattolica, ebrea o musulmana in una versione che metta in rilievo i possibili punti di accesso ad un’intesa democratica.

Ma si deve anche raccontare la storia greca e soffermarsi sui momenti genuinamente formativi nella storia della democrazia.

Il terzo requisito è a mio parere il più importante: un corso sulla filosofia o la teoria politica della forma di governo democratica, dove si rivedano criticamente tutti gli argomenti standard.

Ciò ovviamente dovrebbe includere discussioni sugli ordinamenti costituzionali, ma il fulcro dovrebbe essere sulle pratiche e le attitudini che costituiscono una cultura politica democratica: l’eguaglianza dei cittadini (così degli uomini come delle donne), la loro libertà di parola e associazione, il diritto all’opposizione, la tolleranza per il dissenso, l’esigenza (alle volte) di compromessi, uno scetticismo rispetto all’autorità e così di seguito.

Queste, naturalmente, sono le pratiche e le attitudini in una democrazia liberale, ma in questo caso l’aggettivo non qualifica bensì semplicemente rinforza il sostantivo; dubito che una democrazia illiberale possa mantenere a lungo l’eguaglianza, l’inclusione, e il diritto all’opposizione che sono caratteristiche necessarie della politica democratica.

Il modo migliore di insegnare queste pratiche e attitudini è esemplificarle in classe: così, i testi teorici nei quali la democrazia è stata spiegata e difesa (o criticata) dovrebbero essere studiati democraticamente, con una discussione libera, una ricerca aperta a qualsiasi interpretazione, un’idea del carattere sempre incompiuto del progetto democratico. Gli argomenti non dovrebbero mai essere ridotti ad un catechismo, in special modo non ai fini dell’esame finale».

O si ricomincia dalla scuola, primaria o secondaria, o non ci sarà futuro.