E' RIVOLTA IN SARDEGNA CONTRO LA SPECULAZIONE EOLICA. LA SPECULAZIONE NON E' GREEN

E' RIVOLTA IN SARDEGNA CONTRO LA SPECULAZIONE EOLICA.  LA SPECULAZIONE NON E' GREEN

Redazione, 11 novembre 2023.

È indubbia la violenza con cui Terna&Co vogliono strappare la terra a chi la vive e la coltiva, inquinare mare e aria, provando a travestire i loro progetti di green, probabilmente pensando che, opposizione o meno, le istituzioni più importanti sono facilmente corrompibili e gli abitanti, con i soldi o con la forza, non potranno che abbassare la testa.

Lunghe liste delle persone che “verranno invitate” alla di vendita dei propri terreni che, in caso di rifiuto, ne subiranno l’esproprio.

Il testo che precede è estrapolato dall'articolo CHE VENTO TIRA? pubblicato dal Gruppo MAISTRALI il 31 ottobre 2023.

Il capitale di Terna è posseduto per il 54,7% da Investitori istituzionali.

Di questi: il 18,3% proviene dall'Europa, il 15,2% da Usa e Canada, l'11,6% da Regno Unito e Irlanda, il 5% da Medio Oriente, Asia e Australia. I maggiori: Lazard Asset Management, The Vanguard Group, BlackRock Fund Advisors, Pictet Asset Management, Atlas Infrastructure Partners e Norges Bank Investment Management.

Il controllo di Terna è dello Stato, con il Ministero dell’Economia e delle Finanze che detiene l'82,77% del capitale di Cassa Depositi e Prestiti che, a sua volta, con CDP Reti S.p.A, ha il 29,85% del capitale di Terna.

Il testo integrale dell'articolo pubblicato dal Gruppo di Riflessione Maistrali:

Riflessioni sull’avanzamento della transizione energetica in Sardegna

Questo testo è stato redatto a più mani fra la redazione di Maistrali, i redattori del canale Telegram Sulcis-Iglesiente Ribelle e compagni e compagne che a vario titolo stanno partecipando alla mobilitazione di questo periodo contro la transizione energetica.

Presto verrà diffusa una versione impaginata e stampabile affinché chi volesse diffonderlo può farlo il più facilmente possibile.

L’economia moderna è caratterizzata – tra le varie cose – dalla convergenza di ingenti masse di capitale, di provenienza pubblica e privata, che vengono contemporaneamente investiti in determinati ambiti e che, in alcuni casi, coinvolgono un determinato territorio. Questa convergenza è resa possibile da una serie di concause esterne, che contribuiscono a diffondere la percezione in un gran numero di persone di diversa estrazione sociale di un’oggettiva necessità di tali scelte d’investimento, che trova riscontro nelle agende delle più svariate parrocchie politiche.

La componente pubblica di tali risorse finanziarie è spesso regolamentata da una serie di parametri volti a disciplinare modalità e tempistiche di spesa. Il caso più lampante, di cui si discute quotidianamente negli ultimi mesi, riguarda le varie tranches del PNRR, le cui vincolanti scadenze inducono le istituzioni e le multinazionali coinvolte ad accantonare anche gli ultimi scrupoli nel loro agire, approvando progetti discutibili sotto molteplici aspetti pur di non perdere questi cospicui finanziamenti.

Tale convergenza di interessi pubblici e privati è dunque in grado di mobilitare ingenti risorse e di generare enormi ricchezze; un’apoteosi di servilismo del settore pubblico nei confronti del neoliberismo più sfrenato in cui i lauti profitti sono sempre a vantaggio di pochi, mentre la collettività è costretta a farsi carico dei costi in termini di sfruttamento e devastazione che tali progetti arrecano alla nostra terra.

La Sardegna è nell’orbita o, meglio, nel mirino di una di queste grandissime manovre economiche. Spinte da una montagna di soldi europei una selva di società fantoccio, cui dietro si nascondono multinazionali dell’energia, vorrebbero venire in Sardegna a catturare il vento e a mangiarsi il sole.

Il cambiamento climatico, la necessità di abbandono delle fonti fossili sono i due cardini di necessità condivisa con cui questa manovra si fa forte. La distruzione del territorio e del paesaggio, i dubbi tecnici sul funzionamento di una manovra di tale portata, la rapina di stampo coloniale e la violenza di imporre una vocazione mal gradita e mai proposta sono invece i chiodi con cui vorrebbero di nuovo crocifiggere la Sardegna, costringendola al ruolo di vittima sacrificale per le necessità altrui, in questo caso stati e industrie energivore del nord Italiano e Europee non in grado di prodursi la sufficiente energia verde per mantenere inalterati livelli di produzione, guadagni, ricchezza e potere.

La necessità di prendere una posizione sul tema e di individuare un agire collettivo che permetta di evitare questa ennesima violenza in terra sarda, non può prescindere da una veloce retromarcia per capire come siamo arrivati ad avere quasi mille progetti presentati tra regione e municipi per impianti di produzione energetica.

Il cambiamento climatico.

E’ sotto gli occhi di tutti che il clima si è modificato e che il processo non sia finito, anzi. Tropicalizzazione, scioglimento dei ghiacciai, caldi torridi, innalzamento dei mari sono le notizie scoop che i giornali riportano a gran voce per vendere copie. La sostanza in pillole, senza bisogno di allarmismi terrorizzanti, è che l’attività antropica ha prodotto un aumento della temperatura media del pianeta nell’ultimo secolo e un’accelerazione notevole dal 2000 in poi, a questo dato il pianeta ha reagito e oggi ci troviamo a iniziare a vederne gli effetti e pagarne i danni.

Le nuove generazioni che manifestano in tutto il mondo per chiedere un futuro sono diventate la scusa per gli avvoltoi della green energy per imporsi sul mercato globale ottenendo finanziamenti di miliardi di euro per iniziare la cosiddetta transizione energetica. Le richieste di interventi per fermare il cambiamento in atto sono state strumentalmente riprese da quelle stesse multinazionali responsabili di tale scempio, che oggi si tingono di verde e tentano di ricostruirsi una reputazione. Le nuove generazioni sono state quindi beffate e sfruttate per la loro buonafede, le mobilitazioni hanno subito un’opera di recupero istituzionale forse mai vista prima.

Gli stati hanno sì deciso di abbandonare il fossile, ma come? C’è davvero qualcosa di green?

L’abbandono del fossile.

Che le riserve di petrolio, carbone e gas fossero in esaurimento si dice da almeno un decennio, ma forse pure di più. Nuove tecnologie estrattive hanno permesso di spostare più volte la data di esaurimento dei giacimenti, ma è un dato incontrovertibile che prima o poi questi finiranno o comunque non sarà più conveniente estrarli. A questo si somma il danno che la combustione dei fossili produce a ogni livello.
In risposta a questo è stata lanciata la grande transizione ecologica mondiale, alla quale dovrebbero adeguarsi tutti gli stati del mondo e per la quale tutti dovremmo darci disponibili anche con le nostre piccole scelte quotidiane.

Ma è davvero così?

Negli ultimi anni il consumo di carbone in stati come Germania e India è aumentato (giusto per nominare due stati non esattamente ininfluenti), le centrali italiane a combustione che dovevano spegnersi entro il 2025 hanno spostato la data al 2028, il gas è più che mai al centro di interessi enormi e c’è una guerra a dimostrarlo.

Anche qui da noi la SARAS non sembra minimamente sulla via del ridimensionamento, non parliamo della chiusura o della riconversione.
La questione dell’abbandono del fossile viene usata dai fan della transizione energetica come argomentazione contro chi non la vorrebbe, ma chiariamo subito una cosa: chi in Sardegna si oppone alla transizione energetica non lo fa per la difesa del fossile, non è per la creazione del metanodotto tanto spinto da Pili&Co, lo fa perché è contrario a una speculazione capitalistica che di green non ha nulla e di oscuro moltissimo.

In questo quadro l’abbandono del fossile sta quindi diventando una leva per forzare i dubbiosi della transizione green, la stessa classe politica regionale usa questa leva, con l’ipocrisia totale di non nominare neanche le contraddittorie situazioni di Portovesme e Sarroch.

La distruzione del territorio e del paesaggio.

Migliaia di pale eoliche alte fino a 220 metri verranno installate in tutto il territorio sardo, per la loro realizzazione saranno necessarie, oltre ad un’imponente piattaforma di cemento (si parla di cubature di migliaia di metri), la costruzione di tutte le infrastrutture di trasporto, accumulazione e trasformazione, che in alcuni casi dovranno raggiungere zone rurali piuttosto remote, prive di strade adeguate al passaggio di mezzi pesanti, il che implicherà ulteriori sbancamenti per trasportare tutti i materiali.

Di queste smisurate pale, ma in generale di queste nuove tecnologie energetiche, non conosciamo esattamente la durata, sicuramente non infinita. Conosciamo invece il rischio che rimozione e smaltimento non avvengano mai, neppure una volta che non saranno più funzionanti. Questo è avvalorato dal fatto che le ditte che stanno chiedendo le autorizzazioni hanno capitali sociali bassissimi, ed è quindi probabile che usino la strategia del fallimento quando sarà ora di investire per lo smantellamento degli impianti. Questa pratica è ormai di uso comune in vari ambiti, non si contano le opere lasciate a metà da ditte che hanno chiesto e ottenuto finanziamenti per poi fallire proprio quando i soldi pubblici finivano. Il rischio quindi, che pale e pannelli rimangano lì a deturpare e inquinare il territorio e il paesaggio è più che probabile.

Tutto ciò non avverrà solo a terra.

Anche il mare, appena fuori dalle cosiddette acque territoriali, è oggetto delle mire speculative dei signori del vento.
Pale eoliche fino a 300 metri di altezza in mezzo ai nostri orizzonti marini rientrano nei piani della transizione. Sebbene non sia noto il loro esatto impatto sull’ambiente marino è verosimile immaginare che incideranno su equilibri biologici, migrazioni di pesci e uccelli e in generale sull’ambiente marino, visto che i fondali verranno profondamente dragati per far passare i cavi e installare i basamenti di sostegno dei piloni, e che i lavori dureranno moltissimo tempo con tutti gli annessi e connessi di rumori, inquinamento e via dicendo.
Un’altra pesante incognita che grava su questi impianti è l’impatto del rumore dei rotori e dei campi magnetici che verranno prodotti (questi ultimi potrebbero essere particolarmente impattanti sui pesci migratori).

Risulta evidente come sia terra che mare, e più in generale tutto il territorio sardo, verranno profondamente modificati e danneggiati, che di sostenibile non vi sia proprio nulla, nonostante le tristi dichiarazioni delle associazioni “ambientaliste” come Green peace, Lega ambiente e WWF, che hanno perso l’opportunità di schierarsi contro gli interessi delle multinazionali del vento, preferendo una sterile, quanto inutile rigida posizione ideologica contro il fossile, come se il problema della distruzione del pianeta si risolvesse con pale e pannelli.

Se il territorio e paesaggio sardo, già devastati da discariche, basi militari e colate di cemento sulle coste, verranno davvero invasi da queste torri di cemento è difficile immaginare cosa rimarrà, oltre all’emigrazione e l’abbandono della terra.

La rapina di stampo coloniale.

La Sardegna non è nuova ad essere preda di interessi che vanno ben oltre i confini dell’isola e questo progetto è probabilmente solo l’ultimo tra gli altri, ma la sua portata é tale che risulta difficile stimare.
Come ormai spesso ripetuto, sull’isola viene tutt’ora prodotta circa il 40% in più dell’energia necessaria, che viene esportata dai produttori senza lasciare alcun beneficio o ricchezza in Sardegna; quindi, l’istallazione di questi campi di pale eoliche servirà evidentemente per produrre energia da portare nelle regioni settentrionali e in Europa, come testimonia la centrale importanza del Tyrrhenian link (e il potenziamento degli altri cavi già esistenti) che permetterà di trasportare l’energia in Sicilia e poi in continente.
Tutti i progetti sono finanziati infatti da aziende del nord dello Stato italiano o estere, che hanno visto nei progetti di transizione energetica una proficua opportunità. E non è di certo la prima volta.

Dopo il deturpamento del territorio e delle comunità dato dall’insediamento dell’industria chimica, dalle centrali a carbone, dall’occupazione di migliaia di ettari di terra dalle basi militari NATO, alla Sardegna, come ad altri territori del meridione, è stata riservata l’imposizione di produrre energia per alimentare il capitale di multinazionali, lasciando sul territorio solo inquinamento, sfruttamento e distruzione della terra e del mare.

La violenza di imporre una nuova vocazione mal gradita.

Dal momento che non vi sono reali vantaggi per il territorio derivanti da questo mega progetto, ma solo sfruttamento, le aziende private e le istituzioni complici si sono ben guardate dal cercare un confronto con la popolazione, probabilmente intuendo che non vi avrebbero trovato accordo. Il progetto vuole quindi essere imposto, con la forza che servirà, dall’alto e senza l’interesse di ascoltare le ragioni di chi in questa terra ci vive, vorrebbe rimanerci o tornarci.

Ne sono testimoni tutti i mancati confronti con le persone che vivono nei comuni più interessati, la mancata trasparenza nell’informare di questo progetto dall’inizio del suo concepimento, o la tranquillità dimostrata da Terna nell’affermare che a prescindere dalla posizione presa dalle giunte comunali, il progetto (Thyrrenian link) non si fermerà.
Ulteriore prova sono le lunghe liste delle persone che “verranno invitate” alla di vendita dei propri terreni che, in caso di rifiuto, ne subiranno l’esproprio.
È indubbia la violenza con cui Terna&Co vogliono strappare la terra a chi la vive e la coltiva, inquinare mare e aria, provando a travestire i loro progetti di green, probabilmente pensando che, opposizione o meno, le istituzioni più importanti sono facilmente corrompibili e gli abitanti, con i soldi o con la forza, non potranno che abbassare la testa.

Sul tema della vocazione imposta vi è almeno un altro aspetto fondamentale e riguarda la ricorsività storica di queste logiche.
Negli ultimi vent’anni la Sardegna ha visto un lento ma evidente cambiamento dal punto di vista socio-economico. Ne sono emblema la riduzione di alcuni settori tradizionali come l’agropastorale, reso sostanzialmente dipendente in gran parte dai premi europei, e la crisi irreversibile della forzata e fallita industrializzazione pesante, che tra Portovesme, Ottana e Porto Torres si mostra oggi come una desolante catastrofe naturale e sociale. Da questi resti novecenteschi si è lentamente elevato il settore turistico, anch’esso pieno di criticità (sfruttamento, lavoro nero, consumo di suolo, stagionalità, caro affitti) e a macchia di leopardo delle piccole esperienze che cercano sinergie con terra e popolazione, o almeno quel che ne rimane.

È nei confronti di chi soffrendo e faticando, accettando stipendi inadeguati o sudando le celeberrime sette camicie, che questa transizione risulta un’imposizione ancora più violenta, nei confronti di tutti quelli che sono rimasti o tornati nonostante le difficoltà, nei confronti di chi sogna una Sardegna diversa e di nuovo non gli viene lasciato il modo di decidere del territorio in cui vive.
Sembra assurdo sentendo i proclami di governi e governatori, ma ancora nel 2023 in uno degli stati più importanti d’Europa, vi sono delle regioni che vengono letteralmente sacrificate, in cui il sottosviluppo e la subalternità sono cardini da mantenere tali per poter sfruttare al meglio sia terra che popolazione drenando altrove tutta la ricchezza prodotta.
Sardegna, Sicilia e meridione stanno ancora oggi subendo questa sorte.

I dubbi tecnici-economici sul funzionamento di una manovra di tale portata

Qualora le ragioni storiche, sociali ed economiche non fossero sufficienti ve ne sono anche di tecniche.
La transizione così come ci sta venendo presentata presenta notevoli lacune tecniche e non pochi angoli bui. Anche ad uno sguardo di non addetti ai lavori o tecnici, emergono diversi aspetti che sembrano non tornare.
Ciò che più salta all’occhio è l’esagerata, forse pure esasperata, presentazione di progetti.
Sembra impossibile che tutti possano entrare in produzione poiché si creerebbe un notevole problema di gestione dell’energia prodotta, mancherebbero cioè le infrastrutture di accumulo, nonostante siano previste sottostazioni di svariati ettari in vari punti della Sardegna proprio per questo scopo.
Ma non sarebbero sufficienti neanche quelle di trasporto, cioè i cavi, anche al netto del Thyrrenian link infatti sarebbero sottostimati di almeno 6 o 7 volte. Cosa ne sarebbe dunque di tutta questa energia?

Altri dubbi, come già accennato, riguardano i progetti off shore, di cui c’è poca esperienza in materia di montaggio e progettazione, specialmente per quanto riguarda la resistenza alle mareggiate, alle correnti e in generale alle avverse condizioni del mare aperto.
I progetti sono oscuri inoltre anche su come far arrivare l’energia dal mare a terra, con rischi di enormi dispersione di questa durante il trasporto.
Vi sono addirittura dei casi in cui palesemente la redazione del progetto non ha incluso un sopralluogo reale (ci immaginiamo che abbiamo usato solo immagini satellitari) e le infrastrutture siano davvero campate per aria, o situate in zone archeologiche, o SIC, o ZPS o ancora in siti non idonei.

Il fatto che poi siano richieste avanzate da privati fa si che non vi sia neanche una sorta di regia generale, per cui ci sono delle zone in cui i progetti presentati sono davvero troppi, ad esempio nel solo tratto tra l’isola del Toro e Pan di Zucchero è stata richiesta l’installazione di ben 276 pale eoliche gigantesche.
Ci chiediamo che credibilità possa avere una manovra così tanto approssimativa, che tutele siano state realmente pensate per noi che qui ci viviamo, per le attività produttive, per la nostra salute.

Infine vi è una questione non secondaria che sta venendo un pò trascurata: il fenomeno di accaparramento di ampie porzioni di Sardegna in mano a privati. Che sia con l’acquisto, l’affitto o l’esproprio, se una parte consistente di progetti dovessero almeno partire ci vedremmo espropriati di migliaia e migliaia di ettari di terra e mare sardo, che finirebbero nelle mani di aziende private da cui non c’è niente di buono da aspettarsi. Lo scenario potrebbe poi includere la cessione di questi lotti di terra, diventati monoproprietario, ad altre per altre aziende per speculazioni, energetiche o no, mettendo noi nella condizione di avere ancora meno possibilità di difendere il nostro territorio.
Da questo punto di vista le campagne lanciate negli ultimi mesi da vari gruppi sul resistere e non cedere la propria terra ci sembrano una visione azzeccata in ogni direzione, che include resistenza ma anche rilancio e speranza di creare un modello di vita differente, che passi proprio da una visione nuova di utilizzo della terra. Su dinai spàciat sa terra abarrat ci sembra più oggi che mai azzeccatissimo.

Cosa accade

Questo quadro, seppur sommario, a tratti superficiale ma speriamo comunque stimolante, sarebbe incompleto senza un tentativo di ricostruzione di cosa sta accadendo in risposta in giro per la Sardegna.

Un po’ ovunque si sta registrando un positivo e partecipato dinamismo, principalmente a trazione istituzionale (in particolare sono i sindaci dei piccoli centri a essersi dati da fare), ma con positive eccezioni come l’agro di Selargius e dintorni, uno dei pochi posti dove l’amministrazione locale si è schierata a favore delle opere e quindi il comitato locale è nato con una postura e una composizione non istituzionale.
Sono nati numerosi comitati, che spesso hanno assunto l’accezione di “difesa del territorio” mostrando una sensibilità e una necessità che vanno oltre la vertenza energetica.
La fase include ancora una grande speranza riposta nella politica regionale, in particolare nei confronti della Giunta a cui si chiede di fare un moratoria che abbia funzione sospensiva su tutti i progetti che riguardano la transizione, e si impegni a scegliere delle zone idonee.
Questa fiducia, ovviamente molto comprensibile vista la portata del fenomeno e la forza dei nemici, rischia però di ritorcersi contro le stesse persone che la invocano. Infatti la mappa delle zone idonee rischia di essere una grande fregatura, poiché non essendo chiari i parametri che verranno adottati si rischia di essere eletti tali senza aspettarselo.
Ognuno spera che non sarà casa sua, e tutti hanno buone ragioni (un nuraghe, un SIC, un parco e via dicendo) ma la logica delle zone idonee include che da qualche parte le pale saranno messe, e ne sono previste molte. Probabilmente sta proprio qua la difficoltà della Giunta, tra l’altro a pochi mesi dalle elezioni.

Appellarsi quindi al diritto e alle istituzioni può essere una strada, ma auspichiamo che non sia l’unica.
La difesa reale del territorio da sempre non può che essere gestita da chi il territorio lo vive. A Selargius ne stanno fornendo un ottimo esempio: è nato infatti un presidio in uno dei terreni da espropriare e l’intero agro vive di una notevole dinamicità e voglia di resistere.
Ma allargando lo sguardo possiamo trovarne tanti altri, nel passato recente, in Sardegna e non solo.

Rimangono grandi incognite che in questo momento ci sembra che frenino una vera partecipazione di massa, forse la più importante è quella connessa alle tempistiche dell’inizio dei lavori, che sembra essere legato a doppio filo alle scadenze del PNRR, ma nessuno di stupirebbe se emergessero deroghe o vari magheggi.
Il lavoro di informazione, nonostante la grancassa suonata quasi quotidianamente dall’Unione Sarda, è a oggi forse una delle cose più importanti, da unire al monitoraggio del territorio sotto varie forme, che vanno dal controllare che non vengano aperti cantieri a che non arrivino i tecnici delle aziende ad acquistare i terreni ai privati.

Gli interessi dietro questa speculazione sono davvero enormi, per cui c’è da aspettarsi che verranno usati tutti i mezzi leciti e illeciti per far si che i fondi si sblocchino e i lavori inizino.

Aver cura del posto dove si vive ci sembra il minimo per sperare di avere un futuro diverso da quello che queste manovre ci vorrebbero imporre.